Yoga e Coronavirus.
La pratica quotidiana ai tempi della quarantena.
a cura di: Dott.ssa Daria Mascotto – Dottoressa in scienze Etno-antropologiche, Operatrice Ayurvedica e danzeducatrice®
All’inizio c’è come una resistenza.
Qualcosa in noi si oppone.
Non mi riguarda. Non posso fermarmi, smettere di.
Poi arriva la paura. Una vaga stretta al torace.
Paura di che cosa?
Di perdere qualcosa, di rinunciare. Di non sapere. Di soffrire. Di morire.
Yoga Sutra di Patanjali, testo cardine della tradizione, sintetico e scarno, è composto da 195 aforismi trasmessi per secoli solo oralmente, da maestro a discepolo. Tra il II secolo a.C. e il IV secolo d.C. i Sutra sono stati trascritti e consegnati alla storia dell’umanità. Oggi, dopo più di duemila anni, sono ancora oggetto di studio e di interesse da parte di ricercatori e praticanti di tutto il mondo. L’Occidente in particolare, da un secolo e oltre, sembra aver sviluppato una grande voracità del sapere antico, radicato nell’esperienza di uomini e donne che allora come oggi si trovano a porsi, seppur in contesti diversi, le stesse domande esistenziali.
Perché la condizione umana si presenta sempre legata a sofferenza, malattia, vecchiaia, morte? E come queste forme di sofferenza influiscono su di noi, sulla nostra coscienza, sul nostro comportamento?
I Sutra individuano le cause della sofferenza umana in 5 radici, i Pancha Klesha.
Avidya, “ignoranza”, indica qualcosa che va oltre il non sapere in termini di non conoscenza. Ci suggerisce la nostra incapacità a vedere le cose “come sono”, in primo luogo noi stessi. Questa incapacità deriva a sua volta da atteggiamenti interiori abituali, meccanici e ripetitivi, che costituiscono il senso dell’Io, Asmita. L’Ego deve alimentarsi di certezze per sussistere, deve rafforzare l’immagine che ha di se stesso, avvolgendosi di sicurezze e fissando in una forma stabile il continuo flusso del divenire. Attraverso il desiderio, Raga, il voler possedere o il rifiutare qualcosa o qualcuno, Dvesha, l’Ego si rafforza dietro strutture mentali che offrono l’illusione di essere separati dagli altri, affievolendo sempre di più proprio quel senso di appartenenza ad un unico organismo vivente che potrebbe realmente appagarlo e spingendolo al contrario verso Abhinivesha, l’ultima forma di afflizione: l’attaccamento alla vita, la paura della morte. Ci prende una frenesia del vivere, come reazione alla sensazione di aver imboccato una via che non conduce in nessun luogo, se non all’ansia per la perdita della vita stessa.
Tutti siamo preda di questo meccanismo.
Ma è possibile uscire da questo ingranaggio? Domandano i Sutra.
Yoga nasce come ricerca di libertà, di risposta a questa domanda.
Patanjali propone una Via semplice, concreta: la pratica di Hatha Yoga. Asana, Pranayama, Dhyana.
Partire da qui, partire da sé. Corpo, respiro, mentale. Ascoltarsi, rinunciando alle armature che difendono il nostro Ego, interrompendo l’identificazione con l’agitazione che ci abita continuamente, per imboccare il cammino della ricerca.
Pandemia? Qui? Ora?
Ci si affaccia sulla soglia di qualcosa di nuovo. Di spaventoso. Ma proprio perché non sappiamo come reagire di fronte a ciò che non conosciamo, intravediamo aprirsi nuove possibilità.
Nuove possibilità? Eravamo già abbastanza occupati con le vecchie! Così tanto occupati da non poterci proprio fermare.
Arrivano sciami di pensieri, che rimbalzano sul respiro.
Bene, ma ora ci siamo. No, non domani. Ora.
Ci dobbiamo fermare. Ora. Stare in casa.
Abbiamo tempo. Abbiamo silenzio.
O forse ancora no. Ancora bisogna lasciare che si esaurisca la eco delle azioni avviate.
La sospensione delle attività. L’isolamento. Sono un invito.
Possiamo gentilmente declinarlo, oppure possiamo superare il disagio iniziale e stabilire una relazione con noi stessi autentica, diretta, e attraverso noi stessi con gli altri, con la realtà. Il primo passo è osservarsi, riconoscersi per come si è. Sorprendersi. Tedio, senso di soffocamento sono ancora una volta reazioni dell’Ego che non vuole mollare la presa, che ancora preferisce la solita sofferenza addomesticata all’ignoto, al caos del non conosciuto, fosse anche presagio di felicità.
Yoga Sutra è strutturato in quattro Pada, quattro Libri. Il primo è chiamato Samadhi.
Samadhi in sanscrito ha diversi significati. Indica una fusione, una perdita di individualità, ma anche, in chiave più concreta, la sepoltura, la tomba. Alla morte, infatti, si perde la propria forma singola per tornare parte del Tutto universale. Non è casuale che in molte tradizioni spirituali si segni il passaggio iniziatico che conduce alla trasformazione con una morte e una rinascita simboliche. Anche nella pratica, spesso, cominciamo portando ritualmente il corpo in Shavasana, nella posizione del cadavere, arrendendoci alla forza di gravità e abbandonando l’attitudine difensiva di Asmita. Qualcosa di noi rinuncia a intervenire secondo gli schemi abituali, qualcosa di noi resta vigile, nella calma. Si creano le condizioni perché il cambiamento possa avvenire.
Bene, ci siamo.
Adesso tutto si dilata.
Fuori c’è un silenzio irreale. Dentro casa le ripetute, intime, movenze quotidiane cadenzano il trascorrere del giorno. Ogni gesto si tinge di un colore più vivido. Ogni suono si fa scandito.
Ciò che restava nascosto, sommerso dal continuo vortice del fare, emerge alla coscienza. Aspetti del vivere che diamo per scontati. Lo stesso vivere. Sensazioni interiori alle quali non concediamo mai ascolto. Ora possono trovare spazio.
La quarantena, questo tempo sospeso in cui la routine si interrompe, ciò che si dava per scontato non lo è più e questo ci offre l’occasione per estendere l’esperienza della pratica yoga nella vita quotidiana. Un passaggio dall’Hatha Yoga al Raja Yoga, la pratica permanente.
Il Covid-19, un virus, invisibile agli occhi, con la forza prorompente di una meditazione profonda, ci spalanca sotto i piedi l’abisso delle nostre convinzioni e convenzioni più fittizie. Lo sguardo si modifica per svelare come la separazione fra gli esseri non esiste se non nella nostra mente. La nostra stessa struttura corporea è in costante dialogo con il resto della realtà, su tutti i piani. Solo che, normalmente, la nostra ragione non ne tiene conto.
Samadhi Pada ci racconta del processo di trasformazione della coscienza, necessario per passare da uno sguardo che separa ad uno che unisce.
La pandemia (pan in greco significa Tutto e demos popolazione) suona come un’esortazione della Natura, credo, a ricordarci che siamo Uno. Possano uomini e donne coglierne il richiamo, affinare le qualità della propria consapevolezza e agire di conseguenza.
Naturalmente questo percorso non può realizzarsi dall’oggi al domani. Ha bisogno, come un seme, di essere piantato, di trovare terreno fertile e nutrimento. Ha bisogno di tempo per germogliare e di calore per dare frutti. Dovremo essere vigili e costanti. Gentili e coraggiosi. Per cominciare, sarebbe già interessante se per un attimo rinunciassimo all’abituale, pressante ritmo che definisce la nostra epoca e lo stile di vita della nostra società e ci lasciassimo sperimentare altri modi di sentirsi vivi, interrogando le sensazioni inusuali.